NOTIZIE GIURIDICHE
Esiste un diritto al cambio del nome?
Il diritto al nome è uno dei diritti della personalità riconosciuti e garantiti dalla Costituzione la quale all’art. 22 sancisce che nessuno può essere privato, per motivi politici, del nome. Come diritto della personalità, il diritto al nome è assoluto, indisponibile e non patrimoniale.
Ugualmente, nell’art. 6 del Codice Civile si afferma il diritto al nome individuato quale elemento distintivo della personalità precisandosi che nella espressione «nome» si comprendono il prenome e il cognome.
L’articolo 6 del Codice Civile conclude affermando che “Non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome, se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati”. I cambiamenti del nome sono ammessi infatti solo nei limiti stabiliti dalla legge.
La normativa di riferimento è il DPR n. 54/2012, mediante il quale sono state apportate modiche al DPR 396/2000 e, in particolare, l’art. 2 del DPR in analisi ha modificato l’art. 89 del vecchio DPR del 2000 stabilendo alla rubrica “Modificazioni del nome o del cognome” che: “1. Salvo quanto disposto per le rettificazioni, chiunque vuole cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome, anche perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l'origine naturale o aggiungere al proprio un altro cognome, deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato l'ufficio dello stato civile dove si trova l'atto di nascita al quale la richiesta si riferisce. Nella domanda l'istante deve esporre le ragioni a fondamento della richiesta. 2. Nella domanda si deve indicare la modificazione che si vuole apportare al nome o al cognome oppure il nome o il cognome che si intende assumere. 3. In nessun caso può essere richiesta l'attribuzione di cognomi di importanza storica o comunque tali da indurre in errore circa l'appartenenza del richiedente a famiglie illustri o particolarmente note nel luogo in cui si trova l'atto di nascita del richiedente o nel luogo di sua residenza”.
In base al nostro ordinamento, non esiste quindi un diritto al cambiamento del nome tanto che la legge sull’ordinamento dello stato civile, nel regolare la materia, ha previsto solo la procedura attivabile per il risultato ambito dal soggetto che richiede il cambiamento del proprio nome e/o prenome.
L’accoglimento della domanda considera quindi che il diritto al nome viene acquisito alla nascita e consente al soggetto di distinguersi all’interno della famiglia di appartenenza e nell’ambito del proprio contesto sociale tenendo altresì in conto l’esigenza pubblicistica relativa alla stabilità degli estremi identificativi della persona anche in relazione all’interesse pubblico relativo alla certezza degli atti e dei rapporti giuridici.
Quanto precede, tuttavia, non conferisce alla pubblica amministrazione un potere discrezionale circa l’accoglimento o il rigetto della domanda in quanto è ritenuta necessaria la individuazione di puntuali ragioni di pubblico interesse che giustifichino il sacrificio dell’interesse privato del soggetto al cambiamento del proprio cognome, ritenuto anch’esso meritevole di tutela dall'ordinamento. Quindi, sebbene l’Amministrazione eserciti un potere discrezionale in ordine al rilascio ovvero diniego del decreto di cambiamento del cognome, è necessario evidenziare che l’Autorità prefettizia non può spingersi a vagliare le personali ragioni o apprezzamenti soggettivi dell’istante.
I casi più frequenti di ricorso alla procedura di modifica del cognome riguardano la richiesta di aggiunta di cognome materno a quello paterno o di sostituzione del cognome materna a quello paterno. Seguono le richieste delle donne divorziate o vedove, di aggiungere per i figli al cognome del marito defunto il cognome del nuovo marito.
Frequenti sono anche i casi di modifica del cognome con acquisizione del nome d’arte. Uno di questi casi ha riguardato Mogol il quale, mediante la procedura descritta, ha ottenuto l’autorizzazione ad aggiungere al suo cognome il nome d’arte. In questo caso, l’accoglimento della domanda è stata motivata dalla notorietà del personaggio conosciuto socialmente e pubblicamente in Italia e all’estero con il suo pseudonimo.
Pertanto, Mogol dopo l’accoglimento della richiesta dell’artista, non è più solo il nome d’arte di Giulio Rapetti ma anche il suo secondo cognome.
La legge Pinto ed il giusto processo
Nel 1950 il Consiglio d'Europa ha firmato la convenzione europea dei diritti dell’uomo. Si tratta di un trattato internazionale volto a tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali in Europa. Tutti i 47 paesi che formano il Consiglio d'Europa, sono parte della Convenzione.
La Convenzione ha istituito la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU o Corte EDU), volta a tutelare le persone dalle violazioni dei diritti umani. Ogni persona i cui diritti sono stati violati nel quadro della convenzione da uno Stato parte può adire la Corte.
In base all’art. 13 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo alla rubrica Diritto a un ricorso effettivo leggiamo: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.
La legge n. 848/1955 di ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 all’art. 6 ha sancito il diritto di ogni persona ad un processo pubblico innanzi a un decisore imparziale e indipendente, sottoposto alla legge e obbligato a decidere entro un termine ragionevole, dopo un contraddittorio assistito da un avvocato difensore.
La legge 24 marzo 2001, n. 89 - nota come legge Pinto - (dal nome del suo estensore, Michele Pinto) prevede e disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l'irragionevole durata di un processo in affermazione del principio del c.d. giusto processo.
La legge 28 dicembre 2015, n. 208 con l’art. 1, comma 777, lettera a) ha disposto la modifica della Legge Pinto con l’introduzione dell’art. 1-bis il quale, alla rubrica Rimedi all'irragionevole durata del processo prevede che 1. La parte di un processo ha diritto a esperire rimedi preventivi alla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione stessa. 2. Chi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all’articolo 1-ter, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell’irragionevole durata del processo ha diritto ad una equa riparazione.
I rimedi preventivi, in base al successivo art. 1 ter della Legge Pinto, consistono in strumenti da porre in essere all’interno del processo individuati quali strumenti di accelerazione del procedimento. Ad esempio, nel procedimento civile ordinario, si richiama l'introduzione del giudizio nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui agli articoli 702-bis cpc.
Ai sensi dell’art. 2, comma 2-bis, della norma in analisi, il termine di ragionevole durata del processo si considera rispettato se non eccede la durata di:
3 anni per i procedimenti di primo grado;
2 anni per i procedimenti di secondo grado;
1 anno per il giudizio di legittimità;
3 anni per i procedimenti di esecuzione forzata: i procedimenti di esecuzione devono essere considerati distintamente rispetto al procedimento di cognizione, di conseguenza i termini devono essere sommati (Cass., SS.UU., 19/03/2014, n. 6312);
6 anni per le procedure concorsuali.
In ogni caso, il termine ragionevole è rispettato se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a 6 anni (art. 2, comma 2-ter, L. 24/03/2001, n. 89).
Il procedimento si propone con Ricorso avanti la Corte d’Appello nel cui distretto ha sede il Giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto.
Il Ricorrente può domandare il risarcimento del danno patrimoniale (danno emergente e lucro cessante) e danno non patrimoniale (danno morale, danno biologico e danno esistenziale).
L’indennizzo è determinato ex art. 2056 Codice Civile tenendo conto di:
- esito del processo in cui si è verificata la violazione;
- comportamento del Giudice e delle parti;
- natura degli interessi coinvolti;
- valore e rilevanza della causa.
Il Giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 400 euro e non superiore a 800 euro, per ciascun anno o frazione di anno superiore a 6 mesi che eccede il termine ragionevole di durata del processo (ex art. 2-bis, L. 24/03/2001, n. 89).
La norma in esame è stata oggetto di numerosi interventi legislativi di modifica dell’impianto originario con dichiarata la finalità di “razionalizzare i costi conseguenti alla violazione del termine di ragionevole durata dei processi”.
Analizzato brevemente questo argomento sorge il pensiero che sarebbe più opportuno se il legislatore si interrogasse realmente sulle cause endogene e sistemiche che incidono negativamente sulla celerità dei processi italiani, piuttosto che riformare la legge Pinto con il solo scopo di rendere sempre più tortuoso il cammino verso l’equa riparazione.
Lo Studio è a vostra disposizione in merito alle questioni oggetto del presente intervento e, naturalmente, ogni osservazione, domanda o critica sarà ben accetta e utile a migliorare il nostro lavoro.
Responsabilità della banca se un truffatore mi prosciuga il conto corrente
In quella che oggi viene definita “rivoluzione tecnologica” si è compreso che la costruzione di una società “super intelligente” passa dallo sfruttamento delle tecnologie digitali in un’ottica di miglioramento della qualità della vita, indipendentemente dall'età, dal sesso, dalla lingua o da altri fattori. L’integrazione tra mondo reale e mondo digitale non deve quindi mai perdere di vista l’essere umano, a cui la tecnologia deve offrire l’opportunità di ridurre lo stress, aumentare la sicurezza, preservare l’ambiente in cui vive e soprattutto raggiungere la felicità: in parole povere, vivere una vita migliore.
Oggi, partendo da questo concetto, vogliamo analizzare, dal punto di vista giuridico, il rapporto tra il cliente e la Banca con particolare riferimento alle operazioni che il cliente svolge da remoto – cioè senza recarsi fisicamente in Banca – usando il sistema c.d. di “home banking”. In particolare, vogliamo chiarire cosa succede quando il meccanismo si inceppa ed il Cliente subisce una frode o, più chiaramente, cosa succede quando il sistema (della Banca) viene “bucato” e l’ignaro correntista vede volatilizzarsi il saldo del proprio conto corrente.
La materia è disciplinata dal D.Lgs. 11/2010 (emanato in attuazione della Direttiva 2007/64CE5 e successivamente modificato dal D. Lgs. 218/2017, in attuazione della Direttiva 2015/2366/UE6, in vigore dal 13/01/2018 ed operativa dal 14/09/2019).
Per il caso che interessa l’articolo da leggere è il 10 intitolato:
Prova di autenticazione ed esecuzione delle operazioni di pagamento.
Vediamo:
“1. Qualora l’utente di servizi di pagamento neghi di aver autorizzato un'operazione di pagamento già eseguita o sostenga che questa non sia stata correttamente eseguita, è onere del prestatore di servizi (Banca n.d.r.) di pagamento provare che l'operazione di pagamento è stata autenticata, correttamente registrata e contabilizzata e che non ha subito le conseguenze del malfunzionamento delle procedure necessarie per la sua esecuzione o di altri inconvenienti.
1-bis. Se l'operazione di pagamento è disposta mediante un prestatore di servizi di disposizione di ordine di pagamento, questi ha l'onere di provare che, nell'ambito delle proprie competenze, l'operazione di pagamento è stata autenticata, correttamente registrata e non ha subito le conseguenze del malfunzionamento delle procedure necessarie per la sua esecuzione o di altri inconvenienti connessi al servizio di disposizione di ordine di pagamento prestato.
2. Quando l'utente di servizi di pagamento neghi di aver autorizzato un'operazione di pagamento eseguita, l'utilizzo di uno strumento di pagamento registrato dal prestatore di servizi di pagamento, compreso, se del caso, il prestatore di servizi di disposizione di ordine di pagamento, non è di per sé necessariamente sufficiente a dimostrare che l'operazione sia stata autorizzata dall'utente medesimo, né che questi abbia agito in modo fraudolento o non abbia adempiuto con dolo o colpa grave a uno o più degli obblighi di cui all'articolo 7. E' onere del prestatore di servizi di pagamento, compreso, se del caso, il prestatore di servizi di disposizione di ordine di pagamento, fornire la prova della frode, del dolo o della colpa grave dell'utente”.
Quindi, in base alla legge, l’utente che abbia subito una frode mediante l’utilizzo degli strumenti informatici messi a disposizione della Banca ha diritto ad ottenere l’immediato rimborso della somma illecitamente sottratta, salvo il successivo onere della Banca di provare che l’azione sia stata posta in essere dal Cliente al fine di ottenere la restituzione di quanto versato.
La prova da parte della Banca deve essere fornita mediante indizi chiari, precisi e concordanti, idonei a comprovare che l’utente non abbia custodito il mezzo di pagamento con la dovuta diligenza, ovvero, l’intermediario deve fornire “una serie di elementi di fatto che caratterizzano le modalità esecutive dell’operazione dai quali possa trarsi la prova, in via presuntiva, della colpa grave dell’utente”.
La prova che l’operazione sia stata autenticata, correttamente registrata e contabilizzata e che non vi sia stata una défaillance del servizio, non esaurisce l’onere probatorio posto a carico dell’intermediario, dovendo quest’ultimo dimostrare che non vi siano stati “altri inconvenienti”.
L’analisi della disciplina evidenzia l’esistenza di uno squilibrio tra la posizione processuale della Banca e la posizione dell’utente.
Incombe sulla Banca una sorta di “probatio diabolica”, tuttavia, la ragione individuata dal nostro legislatore a giustificazione della disciplina trova la sua ragione in una politica orientata alla distribuzione del rischio di impresa ossia all’idea secondo la quale “è razionale far gravare i rischi statisticamente prevedibili legati ad attività oggettivamente pericolose, che interessano un’ampia moltitudine di consumatori o utenti, sull’impresa, in quanto quest’ultima è in grado, attraverso la determinazione di prezzi di vendita dei beni o di fornitura del servizio, di ribaltare sulla masse dei consumatori e degli utenti il costo dell’assicurazione di detti rischi. Si tende, in altri termini, a spalmare sulla moltitudine degli utilizzatori il rischio dell’impiego fraudolento” dei mezzi di pagamento, in modo da evitare che esso gravi esclusivamente e direttamente in capo al singolo pagatore.
E’ bene sottolineare che un consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che la circostanza che operazioni di pagamento disconosciute dal cliente siano avvenute mediante l’uso di codici di accesso personalizzati non è indice incontrovertibile della violazione da parte del cliente dell’obbligo di diligente custodia di detti codici, in quanto sono oggi largamente diffuse tecniche e tecnologie sofisticate, le quali consentono di carpire gli altrui codici di accesso personalizzati senza alcuna cooperazione colposa da parte del cliente.
Pertanto, l’esclusione di qualsivoglia tipo di colpa anche lieve, è usualmente comprovata dalla denuncia di frode tempestiva da parte del cliente, sia alle autorità, che alla Banca (secondo le modalità stabilite nel contratto quadro per il disconoscimento dell’operazione).
Sulla questione, ex multis, vale la pena di citare quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 9158 depositata il 12 aprile 2018: “in tema di responsabilità della banca in caso di operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, anche al fine di garantire la fiducia degli utenti nella sicurezza del sistema (il che rappresenta interesse degli stessi operatori), è del tutto ragionevole ricondurre nell’area del rischio professionale del prestatore dei servizi di pagamento, prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente, la possibilità di una utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo. Ne consegue che, anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 11 del 2010, attuativo della direttiva n. 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, la banca, cui è richiesta una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell’accorto banchiere, è tenuta a fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al cliente”.
Quindi, ove ci si ritenga vittime di una frode informatica è necessario
1) denunciare tempestivamente alla Banca l’operazione disconosciuta;
2) denunciare all’autorità giudiziaria la frode rilevata;
3) chiedere alla Banca la restituzione del maltolto;
4) in caso di rifiuto del rimborso sarà possibile adire l’arbitro bancario per la composizione della lite e/o agire in giudizio per ottenere il rimborso della somma illecitamente sottratta.
Lo Studio è a vostra disposizione in merito alle questioni oggetto del presente intervento e come sempre ogni osservazione, domanda o critica sarà ben accetta e utile a migliorare il nostro lavoro.
Violenze domestiche: protezione contro gli abusi familiari
Quotidianamente i mass-media danno, purtroppo, notizia di casi di violenza perpetrati tra le mura domestiche: il luogo dove dovrebbe regnare la serenità, l'armonia, il rispetto ….
Il diritto incontra non poche difficoltà nel prevenire e sanzionare le violenze nell'ambito della famiglia. La legge, infatti, interviene soltanto quando l'equilibrio è ormai compromesso e si sono già innescati, nell'ambito della famiglia, quei meccanismi che conducono inevitabilmente alla rottura definitiva dei vincoli affettivi.
Nel nostro ordinamento esistono due binari per la tutela del soggetto vittima di violenze in famiglia, ovvero quello penale e quello civile. Se la violenza integra gli estremi di un reato la vittima può chiedere che l'ordinamento intervenga per punire l'aggressore tramite gli strumenti della giustizia penale.
In alternativa, la vittima può decidere di agire di fronte al giudice civile e tra gli strumenti utilizzabili in sede civile si rinvengono gli ordini di protezione contro gli abusi familiari introdotti con la legge n. 154/2001.
Attraverso l'introduzione degli ordini di protezione il legislatore ha inteso offrire uno strumento per ottenere in sede civile un tempestivo intervento di contenimento della violenza nell'ottica di una tutela volta all'attenuazione della conflittualità ed al recupero delle relazioni familiari applicabile limitatamente alle situazioni di conflitto meno grave che non configurano ipotesi di reati perseguibili d'ufficio.
Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari sono disciplinati dall’art. 342 bis Codice Civile. Si tratta di provvedimenti che il Giudice adotta con decreto, su istanza della parte interessata. Il Giudice, valutata la situazione, può ordinare la cessazione della condotta del coniuge o di altro convivente che sia “causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente”.
I provvedimenti di cui all’art. 342 bis Codice Civile possono essere richiesti quando la condotta di un coniuge o di altro convivente, sia causa di un grave pregiudizio all’integrità fisica e morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente. Presupposti fondamentali per richiedere ed ottenere l’emanazione di tali provvedimenti, sono due:
- la convivenza: il soggetto che pregiudica la libertà o minaccia l’integrità fisica di un altro soggetto deve essere convivente, ossia deve vivere nella stessa casa.
- la condotta gravemente pregiudizievole: deve sussistere l’oggettiva esistenza di un pregiudizio grave all’integrità fisica, morale oppure alla libertà della persona, all’interno di un ambiente domestico.
La qualificazione dei tali comportamenti è stata recentemente oggetto di diverse pronunce giurisprudenziali (di merito) dirette a fornire una classificazione delle condotte.
In tale contesto, il Tribunale di Milano ha chiarito che la condotta del soggetto nei confronti del quale si richiede l’emanazione degli ordini di protezione debba essere oggetto di una doppia valutazione. Il Giudice deve effettuare una valutazione sia sotto il profilo qualitativo, che sotto il profilo quantitativo. Verrà quindi valutata sia la tipologia di comportamento posto in essere dal coniuge (o dal convivente) sia la durata e l’entità di tali comportamenti.
In conclusione, per condotta pregiudizievole, deve intendersi un comportamento caratterizzato dal verificarsi di reiterate azioni ravvicinate nel tempo, consapevolmente dirette a ledere i beni tutelati, e non da singoli episodi compiuti a distanza di considerevole tempo tra loro.
Una volta che il Giudice abbia effettuato una valutazione qualitativa e quantitativa delle condotte poste in essere dal convivente o dal coniuge, emetterà con Decreto gli ordini di protezione. Tali ordini potranno avere il seguente contenuto:
- prescrivere all’autore della condotta di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima;
- chiedere l’intervento dei servizi sociali.
In ogni caso, gli ordini di protezione non possono avere una durata superiore ad un anno ed in caso di proroga, quest’ultima può essere concessa solo se ricorrono gravi motivi e per un tempo strettamente necessario. La valutazione naturalmente è rimessa al Giudice.
L'art. 6 della legge n. 154 prevede che chiunque eluda uno degli ordini di protezione previsto dall'art. 342 bis e ter del Codice Civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, è punito con la pena prevista dall'art. 388 Codice Penale che punisce il reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice.
Lo Studio è a vostra disposizione in merito alle questioni oggetto del presente intervento e, naturalmente, ogni osservazione, domanda o critica sarà ben accetta e utile a migliorare il nostro lavoro.
I "contratti della crisi coniugale" sono esenti da imposte e tasse
La crisi coniugale porta con sé la necessità per la coppia di assumere una serie di decisioni relative, preliminarmente, alla regolamentazione dei diritti di visita della prole e, in ogni caso, alla ripartizione del patrimonio della famiglia.
Questi accordi, in legalese, sono definiti: condizioni di separazione.
In tale concetto, sono oggi inseriti anche tutti quegli atti che vengono stipulati “in occasione della, separazione”. Si tratta di contratti meglio identificati come “contratti della crisi coniugale” attraverso i quali la coppia realizza una negoziazione globale la cui causa è quella di definire in modo non contenzioso - e tendenzialmente definitivo - la crisi.
Nell’intento di favorire la definizione non contenziosa della crisi coniugale il nostro legislatore con la Legge n. 74/1987 all’art. 19 ha stabilito che “Tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti ad ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli articoli 5 e 6 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, sono esenti dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa”.
Tale norma, per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale n. 176/1992 e n. 154/1999, ha esteso i suoi effetti “a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi”.
In base al testo della norma, come interpretato dal Supremo Collegio con la sentenza n. 860/2014, “l’agevolazione va, quindi, riconosciuta in riferimento ad atti e convenzioni [n.d.r. gli accordi di separazione/divorzio] posti in essere nell’intento di regolare, sotto il controllo del giudice, i rapporti patrimoniali tra i coniugi conseguenti allo scioglimento del matrimonio, o alla separazione personale, compresi gli accordi che contengono il riconoscimento o attuano il trasferimento di proprietà di beni immobili all’uno o all’altro coniuge, o in favore dei figli. La speciale normativa fiscale sugli atti esecutivi di siffatti accordi impone però che i soggetti che li pongano in essere siano gli stessi coniugi che li hanno conclusi, e non anche i terzi”.
Nel solco di questa normativa si inserisce la recentissima Ordinanza del Supremo Collegio – Sezione Tributaria Civile - n. 4144 del 17.2.2021 che ha accolto l’impugnazione del contribuente respingendo l’interpretazione della norma offerta dall’Agenzia delle entrate che aveva negato al contribuente il rimborso di quanto pagato dal medesimo a titolo di imposta di registro ed ipocatastale sull’atto mediante il quale egli aveva acquistato dalla moglie la casa coniugale ed il relativo box, in adempimento degli accordi di separazione consensuale omologati dal Tribunale.
La Commissione Tributaria regionale aveva escluso l’applicabilità alla fattispecie del regime di esenzione tributaria previsto dal succitato art. 19 L. 74/1987 in quanto riteneva che l’atto traslativo andasse tassato in quanto relativo ad una compravendita di un bene di proprietà esclusiva della moglie separata.
Secondo il contribuente invece l’atto non avrebbe dovuto essere tassato in quanto l’acquisto era intervenuto tra i coniugi e non nei confronti di terzi e, soprattutto, nell’ambito del regolamento degli accordi patrimoniali di separazione.
Quanto precede nel pieno rispetto dello spirito della norma mirante a favorire il più possibile gli accordi consensuali di separazione senza avere riguardo al fatto che la proprietà del bene compravenduto non fosse in comunione bensì di esclusiva proprietà di uno dei coniugi.
Il Supremo Collegio ha accolto l’interpretazione della norma offerta dal contribuente confermando – ancora una volta – la posizione di favore per l’agevolazione fiscale prevista per i contratti della crisi coniugale.
Sulla stessa linea, seppur relativamente ad un diverso aspetto di fiscalità, la Corte nella medesima sentenza ha precisato che “il trasferimento dell’immobile adibito a casa coniugale a favore di uno dei due coniugi nell’ambito della separazione” non comporta la decadenza dalla agevolazione prima casa.
Lo Studio è a vostra disposizione in merito alle questioni oggetto del presente intervento e, naturalmente, ogni osservazione, domanda o critica sarà ben accetta e utile a migliorare il nostro lavoro.